lunedì 21 aprile 2008

LISBOA NA CIDADE NEGRA – GENERAL D

Ho terminato di leggere in questo fine settimana il libro “Lisboa na cidade Negra” del sociologo francese Jean-Yves Loude, uscito a giugno per le edizioni Dom Quixote al prezzo di 16 euro.
È l’unica ricerca finora condotta sulle influenze culturali esercitate a Lisbona dalla comunità africana. Il fatto che non sia nemmeno opera di un portoghese la dice lunga sull’interesse che mostrano i tugas nei confronti delle ex colonie.

Tra le varie testimonianze raccolte dall’autore, ho deciso di tradurre il “monologo” del General D, nome d’arte del mozambicano Sérgio Matsinhe, il primo rapper che ha cantato in lingua portoghese.
General è un nome di guerra che porta dall’adolescenza, quando al Barreiro, quartiere malfamato sulla riva sinistra del Tejo, riunì una banda di neri per combattere un gruppo di skinheads. Il significato della lettera D, invece, è un segreto che non ha mai svelato a nessuno.

“Sono nato a Maputo, in Mozambico, il 28 ottobre del 1971, povero e nero. Due anni dopo i miei genitori emigrarono a Lisbona, illusi di trovare una vita migliore. Già da piccolo, crescendo al Barreiro, mi sentivo uno ‘scuro’, tra i peggiori individui della specie. Mi ricordo di una canzone che sentivo per strada, e che faceva: ‘Ci sono Manuel e João, bimbi portoghesi, e poi c’è Chico lo scuro, piccolo negro’. Non avevo i soldi per vestirmi come i miei amici, e passai un’adolescenza frustrante, cercando di apparire un bianco negli atteggiamenti e nell’aspetto fisico. Come molti altri giovani neri usavo creme per schiarirmi la pelle e andavo dal parrucchiere per farmi lisciare questi ricci ispidi. Ciò non bastava, ero sempre bersaglio di insulti razzisti, mi accettavano soltanto per giocare a pallone, perché ero bravo e compatriota di Eusebio, la mitica Pantera Negra del Benfica. Le ragazze bianche non mi guardavano nemmeno: volevo conquistarne una non per passione, ma per ascendere allo stesso livello dei portoghesi. Ma niente, ero sepre emarginato: io stesso maledicevo il mio largo naso da nero e le mie labbra spesse. Non mi accettavo”.

Il General D come appare sulla copertina del suo terzo disco Kanimambo (http://cotonete.clix.pt/)

“Poi a diciotto anni la mia vita cambiò, perché conobbi l’hip-hop e i testi di denuncia sociale del rap. Smisi di comportarmi come un bianco, divorai tutte le biografie di Malcom X e a scuola litigavo con quei professori che sostenevano che l’Africa e gli africani non erano niente prima dell’arrivo dei colonizzatori. Mi avvicinai al movimento hip-hop iniziando a comporre i miei primi brani, con l’intenzione di dar voce alla rabbia delle comunità nere costrette a vivere nei bairros de lata della periferia lisboneta. Noi neri non crediamo nei nostri mezzi. Non abbiamo autostima e pensiamo che sia impossibile diffondere la nostra arte al di fuori dei ghetti in cui c’hanno rinchiuso. Il mio primo disco uscì nel 1994 e si chiama PORTUKKKAL, perché paragona il Portogallo al Klu Klux Klan. È una critica violenta al Governo razzista di allora, il cui Primo Ministro era l’attuale Presidente della Repubblica Cavaco Silva, e agli stessi africani che come avevo fatto io cercavano di allontanarsi dalle loro radici per sembrare dei bianchi. Fui il primo rapper a cantare in portoghese, nessuno pensava di poter scrivere certi testi usando la lingua del fado. Dopo la prima apparizione in TV la EMI mi fece un contratto, ma nel giro di tre anni fondai una casa di produzione indipendente, per favorire il lancio di musicisti appartenenti alla mia comunità”.

“I neri del Portogallo in assenza di modelli propri hanno sempre cercato nei neri d’America un riferimento culturale, ma questo è sbagliato, perché le nostre storie sono diverse. Il mio rap non è influenzato come il loro dal blues, dal funk e dal soul, ma dal funaná, dalla coladeira e dal batuque capoverdiani”.

“Lisbona non è una città multiculturale, qui comandano gli occidentali, e tutti gli altri sono rinchiusi nei ghetti periferici. Le nostre stesse manifestazioni culturali sono ghettizzate, e quando escono sono controllate e mitigate dai bianchi. È nostro compito trovare delle forme di comunicazione indipendenti”.

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