venerdì 29 febbraio 2008

SUI MURI DI LISBONA (Rubrica facile, parte 3)

Molo di Casilhas, Outro lado do Tejo

giovedì 28 febbraio 2008

RUA DAS FARINHAS nº1


Io mi sono posto la stessa domanda.
Sono entrato e l’ho fatta ai camerieri, e pure al cuoco, ma nessuno sapeva. In compenso ho ottenuto il numero del proprietario, lo chef portoghese Diogo Carqueiro.
“Guardi, quel nome nasconde un segreto, anzi, di più, un tradimento inconfessabile al grande amore della mia vita, capisce? Se mi promette di tacerlo gliene parlerò”.
Bloggers, brutta razza, ma i cuochi, quanto narcisismo.
“Fino a tre anni fa gestivo il ristorante Fusão, dove proponevo alta sperimentazione a bassi prezzi. Alta sperimentazione per mia scelta, bassi prezzi per scelta dei clienti: non ero ancora affermato, e appena presentavo menù sui 20 euro l’affluenza si azzerava. Lavoravo sedici ore al giorno con doppi turni sia a pranzo che a cena, solo così potevo recuperare le spese e mantenermi legato alla grande cucina. Vivevo per il ristorante, non era il ristorante che mi dava da vivere, e questa relazione andava invertita. Allora feci ricorso alle ricette popolari italiane, economiche e di buona qualità. Fu un successo, tutti si complimentavano, ma intimamente sapevo di condurre un locale traditore, infedele alla mia passione per le ricette d’avanguardia. Una volta lo confidai a un amico di Roma, e lui mi disse: ‘Sì Diogo, questa locanda tradisce il tuo amore in cambio del vile denaro: è proprio una baldracca'. E fu così che chiamai il nuovo ristorante Cantina Baldracca, chiaro?”
“Ma scusi, visto che è un segreto, ai portoghesi che le chiedono il motivo di un nome tanto incomprensibile cosa dice?”
“Oh, niente, che è una parola italiana con un suono fantastico”.

mercoledì 27 febbraio 2008

RUA DAS FARINHAS nº28

È notte in Mouraria, e al ristorante São Cristovão siamo rimasti io, i due padroni, una vecchia donna addormentata al tavolo e i tre musicisti.
Faustinho è capoverdiano, e la cassa della sua chitarra è retta assieme dallo scotch.
Antonio è angolano e suona il djembè. Su una mano ha una grossa cicatrice a forma di elle.
Batcha è brasiliano e sfrega due coltelli da cucina: si alza, fa uno scatto e me li punta.


lunedì 25 febbraio 2008

IL BIVIO

A Cacilhas, sull’altra sponda del Tejo, abbiamo realizzato un video sperimentale. A un certo punto, infatti, vi chiamerò a una scelta. Stiamo cercando di “raffinare” l’idea per esplorare altre zone di Lisbona. Buon divertimento!

Partenza


1)Girate a destra ed entrate nel tunnel


2)Proseguite lungo il molo



Le riprese e il montaggio sono di Antonio Petrolino:
http://www.youtube.com/petrotubo.

sabato 23 febbraio 2008

IL CIELO SOPRA LISBONA (Rubrica per i giorni di pioggia)

Sopra Largo Alfredo Diniz, molo di Cacilhas

venerdì 22 febbraio 2008

SEGRETI DI STATO

Ecco a voi uno scoop, una bomba giornalistica che potrebbe far saltare in aria la rimonta elettorale del compagno Walter.
Uno scandalo di matrice lisboeta, un "Sopagate" insomma, oppure un "Churrascopoli", come preferite.
I fatti. Stamattina mi reco presso l'ufficio consolare dell'Ambasciata italiana per chiedere informazioni sul voto dei residenti all'estero. La fila è lunga, così decido di ingannare l'attesa sfogliando riviste come "Il Carabiniere", "Bell'Italia", e "Il bollettino della provincia di Vicenza". A un tratto però l'occhio mi cade su una lista appesa in bacheca, qualcosa che assomiglia a un annuncio. Mi avvicino e leggo:

SI VENDONO:
1)Divano letto
2)Divano sala
3)Camera da letto per bambino
4)Una gelatiera
5)Un materasso matrimoniale e un materasso single
6)Una stufa elettrica
7)Un deumidificatore
8)Televisione con mobile
9)Computer portatile del 2001

La gelatiera? A Lisbona l'estate inizia ad aprile, comprare subito! Interessatissimo scorro il foglio verso il basso, alla ricerca del contatto. E mentre mi aspetto di trovare un indirizzo e-mail tipo superigattiere@yahoo.it, oppure emigrante_on_line@gmail.com, mi appare invece:

Scrivere a: SEGRETERIAAMBASCIATA@ESTERI.IT

Eh??? Ma come, il ministro D'Alema non manda i soldi e l'Ambasciata si autofinanzia col mercatino?
Immaginatevi una trattativa gestita dal console: "Cittadino su, metta altri 5 euro e col materasso le do pure un tricolore sbiadito".
E no, anche se il divano sala ci faceva comodo, vogliamo spiegazioni!
Ah, per gli interessati: sul deumidificatore c'era un segno sopra, è già stato venduto.


L'Ambasciata italiana di Lisbona, coinvolta nel Sopagate

giovedì 21 febbraio 2008

SUI MURI DI LISBONA (Rubrica facile, parte 2)


Calçada do Tijolo, Bairro Alto

martedì 19 febbraio 2008

STORIA DI DONA DEDÉS (Seconda parte)

Leggi la prima parte!

In Italia no, ma in Portogallo, e in particolare la domenica pomeriggio, le donne anziane usano incontrarsi nei bar, non proprio bar, ma pastelarias, locali dove oltre al caffè, i liquori, i panini e i dolci è possibile consumare dei pasti completi. Alcune si ritrovano intorno a un tavolo e parlano per ore, altre, di ritorno dalla bottega o dal supermercato, si riposano per qualche minuto prima di riprendere i sacchetti e dirigersi verso casa. Lisbona è piena di pastelarias. Piena, ve lo giuro, e sono tutte uguali: stesso salone rettangolare, stesso menù, stessi mobili e stesse vivande, ordinate sempre allo stesso modo. Come dice il mio amico Antonio, entri e ti sembra di riascoltare per la millesima volta lo stesso racconto.
Ma stavolta no, stavolta è domenica pomeriggio, e alla pastelaria Alva mi aspetta Dona Dedés con una storia straordinaria.

Piove, e sto risalendo Rua dos Poias de São Bento. Agli angoli delle strade le comitive di neri, riparate sotto i cornicioni, mi osservano impugnare goffamente l’ombrello, mentre il vento che tira dall’Atlantico lo insacca e lo scuote come vuole. Ho sempre detto a chiunque di non passare mai di notte da questo quartiere, perché è vero, le bande che a Lisbona ti assaltano e ti derubano sono formate da negros, che improvvisano la vita tra queste case decadenti e il molo di Cais do Sodré. Adesso però ho vergogna di me stesso, perché la storia di Dedés è tutta in questo triangolo creolo.


Largo Macedo, il "vertice" del triangolo creolo. A sinistra Rua do Poço dos Negros e a destra Rua dos Poiais de São Bento


Il suo vero nome è Maria dos Reis Duarte, e seduta dietro un tavolo sta sfogliando una raccolta di fotografie. “Sei tu Sandro? Vieni, guarda, questa sono io nel mio vecchio ristorante, il Taki Talá. Eh eh, il televisore era ‘appollaiato’ in questa mensola rialzata, e ogni notte, prima di chiudere, lo spegnevo aiutandomi con la punta di quell’ombrello giallo. Cioè, io abbassavo la saracinesca e andavo a dormire, ma Tito Paris, Dani Silva, Paulino Vieira e quel matto di Lionel Almeida rimanevano fino all’alba a suonare e a raccontare storie con gli altri musicisti capoverdiani”.
“Come? Tito Paris frequentava il suo locale? Ma lui è…”
“Allora, fino al ’76 ho abitato in Rua de São Bento, in una casa dove avevo ricavato una specie di osteria aperta a tutte le ore del giorno. Poi sposai Toi, il mio secondo marito, e ci trasferimmo in Largo do Conde Barão, proprio qua dietro. Ecco, lì riaprimmo l’osteria, tra il salotto e la cucina, e ogni notte, quando finiva di suonare nelle discoteche, Tito veniva da noi trascinando con se comitive di ragazzi, tutti affamati di cachupa, zuppa di pesce e frutti di mare girati in padella. Più tardi arrivavano i marinai stranieri dal porto di Alcântara e i muratori capoverdiani che lavoravano nei cantieri periferici della città. Tito non aveva ancora diciotto anni, ma riusciva a far cantare tutti. Mi chiamava ‘a segunda mae’, e pensa, mi dedicò una poesia che diceva così: nós sentados a contar historias, a comer e beber lá na Dedés, não há preto não há branco, não há raça não há cor, tem só gente lá na Dedés (1). Una notte mi portò in casa persino Cesária Évora, che aveva appena concluso un concerto al teatro São Luiz”.
Dedés perde lo sguardo oltre di me, quasi a cercare il suo giovane amico ormai lontano. “Quando torna dai suoi tour mondiali Tito passa sempre a trovarmi, lì nella mia casa in Rua da Paz, beviamo un bicchiere di grogue, la nostra grappa capoverdiana, e ridiamo come ai vecchi tempi”.


Con Dona Dedés a un tavolo della pastelaria Alva


Continua a sfogliare l’album con le sue mani forti. “Guarda Sandro, questo quadro era appeso su una parete del Taki Talá, sono dieci bambini che giocano sulla battigia di una spiaggia capoverdiana. Sono dieci come le isole del nostro arcipelago. Io nacqui in quella di São Vicente, come mio padre. Mia madre no, lei era di Bela Vista”. Dedés volta pagina, ma i suoi occhi si allontanano ancora, e con un filo di voce rauca spezza il mio sorriso: “Fu nell’isola di Santiago che invece ritrovarono il corpo morto di mio marito Manuel, il padre dei miei primi quattro figli. Era l’estaste del ’74, non ho mai saputo chi lo uccise, e nemmeno perché”.

Stridono i binari del 28, e il passaggio del tram fa vibrare le pareti della pastelaria. Mi viene da pensare al terremoto che nel 1755 rase al suolo questa città, e a quello che nella lontana estate del ’74 distrusse la vita a questa donna che ora siede di fronte a me. “Dopo cinque anni di lavoro duro, con i risparmi accumulati grazie all’osteria di Conde Barão io e Toi aprimmo il Taki Talá. Era il 1981, Toi morì due mesi dopo, ed io rimasi sola con sei figli. Ormai i miei clienti erano la mia famiglia: giovani artisti, africani, nottivaghi e squattrinati. Ma col passare degli anni tutto cambiò: Tito e gli altri divennero famosi e cominciarono a portare la loro musica in giro per il mondo, le attività portuali diminuirono e il quartiere cominciò ad essere disabitato. C’erano giornate in cui vendevo a malapena qualche birra, e piano piano i miei risparmi si esaurirono. Poi, tre anni fa, la Camara Municipal ha chiuso il locale per motivi di sicurezza, ed io, non avendo i soldi per poterlo ristrutturare, sono stata costretta ad abbandonare l’attività”.

Usciamo dalla pastelaria e discendiamo Rua dos Poiais de São Bento. “Dedés, ma adesso come vive, è pensionata?”. “No, non ho raggiunto i contributi necessari, fino all’apertura del Taki Talá ho sempre lavorato al nero. Vivo con la pensione del mio terzo marito, che ho sposato nel ’90. Lui è uno storico e capisce l’italiano. Quando hai scritto l’articolo portamelo, così me lo faccio tradurre da lui, te ne ricordi vero?”

Arrivo a casa tutto bagnato, e subito mostro alle mie coinquiline le foto che ho scattato a Dona Dedés. “Che carina!”, esclama Silvia, “Guarda, si è messa il rossetto per farsi intervistare da te”.
Io guardo meglio le foto e un po’ mi incazzo. Ma perché in certe cose c’arrivo sempre per ultimo?


(1) Seduti a raccontare storie, mangiando e bevendo là da Dedés, non c’è nero e non c’è bianco, non c’è razza ne colore, ma soltanto le persone là da Dedés.

lunedì 18 febbraio 2008

STORIA DI DONA DEDÉS (Prima parte)

“Quando nel 1973 lasciai Capo Verde e i miei quattro figli avevo 34 anni. L’amica che mi pagò il viaggio per Lisbona non riuscì a trovare i soldi per comprare un biglietto anche a loro. Navigammo per cinque giorni, ed io vomitai e dimagrì così tanto che appena sbarcammo al porto di Alcântara, i dottori incaricati di visitarci sospettarono che fossi tubercolotica”.

Di Dona Dedés sapevo soltanto che fino al 2005 aveva gestito la locanda Taki Talá, che in creolo capoverdiano significa “Sto qui, oppure sto là”. Ai clienti che le chiedevano spiegazioni sulla scelta di quel nome Dedés rispondeva: ”Così quando non mi trovate dietro al bancone potete venirmi a cercare in casa, qui di fronte, dall’altra parte di Rua dos Poiais de São Bento. Io interrompo le pulizie e scendo a farvi una cachupa”.

Cammino nel reticolo di vicoli compresi tra Rua do Poço dos Negros, Rua de São Bento e Rua dos Poiais de São Bento, il cosiddetto “triangolo creolo”, una zona in cui a partire dagli anni ’60 iniziò a concentrarsi la comunità capoverdiana. Le case, tuttora umide e degradate, potevano infatti essere affittate a basso prezzo. Sul marciapiede incontro una signora e le chiedo se sa dove abita Dona Dedés. Mi dice: “Non la conosco. È bianca o di colore? Se è di colore chiedi agli altri africani, magari loro lo sanno”.


Il ristorante Taki Talá, in Rua dos Poiais de São Bento, chiuso nel 2005

“Mia sorella, emigrata nel ’59, aveva una casa ad Almada, sulla sponda sinistra del Tejo. I primi giorni andai ad abitare da lei. Piangevo sempre, pensavo ai bambini e a mio marito Manuel, a cui non fu rilasciato il permesso di partire. In quei mesi la dittatura portoghese si sentiva debole e minacciata, e proibiva a molti uomini africani di venire qui per paura che si associassero a qualche movimento sovversivo. Noi donne invece venivamo considerate incapaci di fare cose simili, il regime era maschilista ed arretrato”.

In Rua da Paz, affacciata a una finestra, vedo un’anziana donna capoverdiana. Le chiedo: “Conosce Dona Dedés, l’ex proprietaria del ristorante che sta lì in basso?”
“Non la conosco, ma scusi, lei è straniero?”

“Qualche settimana dopo il mio arrivo a Lisbona andai a fare lavori domestici in casa di una famiglia portoghese. Prima della rivoluzione del 25 aprile del ’74, le donne nere che facevano quel mestiere venivamo chiamate ‘criadas’, che è un termine razzista. I signori per cui lavoravo però mi volevano molto bene, e da subito cominciarono a chiamarmi ‘empregada’”.

In Travessa do Poço dos Negros ripeto la stessa domanda a un angolano che sta arrostendo della carne sulla brace. Dietro di lui dei ragazzi giocano a inseguirsi. “Sì, sì, certo che conosco Dedés”, esclama, “ È la regina della cachupa. Aspetta, aggiungo carbone e ti dico dove abita”.

“Ogni volta che risparmiavo i soldi necessari a comprare un biglietto per la nave, permettevo ad uno dei miei figli di raggiungermi. In due anni ci ricongiungemmo tutti. Così decisi di affittare una casa in Rua de São Bento e di improvvisare un’osteria nel salotto stesso, aperta giorno e notte. Io stavo in cucina a preparare piatti capoverdiani, e i clienti venivano a servirsi da soli. Sono stata io ad introdurre la cachupa a Lisbona, fino a quel momento nessun portoghese la conosceva. Le cose andavano bene, ma non avrei mai potuto immaginare che da lì a qualche anno il mio locale sarebbe diventato il luogo di ritrovo notturno dei più famosi musicisti africani presenti a Lisbona”.

Suono il campanello, ma i citofoni sono rotti e non mi risponde nessuno. Aspetto davanti alla porta chiusa del condominio, nella speranza che qualcuno entri o esca dall’edificio. Dopo pochi minuti si accendono le luci delle scale, e mi appare davanti un ragazzo di colore. Gli chiedo se Dona Dedés abità lì, e lui: “Sì, è mia madre, piacere, io mi chiamo Tony. Ah, vuoi intervistarla? Ti lascio il suo numero di telefono, perché adesso non è in casa. Chiamala domani mattina, così vi mettete d’accordo”.


Il 'churrasco', una grigliata, in Travessa do Poço dos Negros

venerdì 15 febbraio 2008

SUI MURI DI LISBONA (Rubrica facile, parte 1)


Rua de O Século, Bairro Alto

giovedì 14 febbraio 2008

FORSE FORSE...

Aggiornamenti sul Gremio Lisbonense. Ieri pomeriggio, mediata dalla Câmara Municipal de Lisboa, c’è stata una riunione tra i rappresentanti dell’associazione e i proprietari. Al termine di questa l’avvocato del Gremio, Paula Alves de Sousa, ha dichiarato ai soci che la trattativa non durerà più di una settimana e impegnerà le parti a trovare un nuovo accordo economico.
A chi volesse saperne di più sulle cariche di venerdì scorso consiglio di visitare questo blog:


mercoledì 13 febbraio 2008

PRIMO E SECONDO

Cosa lega i guardoni di Anjos, illusi dal brivido di un’inesistente visione erotica, al Gremio Lisbonense?
Proprio di fronte al Gremio, che con 166 anni di storia è la seconda associazione culturale nata in Portogallo, al numero 229 di Rua dos Sopateiros aprì nel 1907 l’Animatógrafo do Rossio, il primo cinema del paese.




E dal 1990 le cose stanno così: dalla porta di sinistra (ex uscita dell’Animatógrafo) si entra in un sexy shop, mentre da quella di destra (ex ingresso) si accede a una sala pornografica.

martedì 12 febbraio 2008

TI SENTI SPIATO E DIVENTI UN GUARDONE

Quando a Lisbona si parla di quartieri brutti, sporchi e pericolosi, dopo Olivais e Couva de Moura è quasi sempre il turno di Anjos. Conosco persone che lo attraversano di corsa per la paura di essere derubate dal fantasmagorico “branco di Anjos”, altre che sostengono di averci visto bambini negri sprangare i pali della luce, così, in pieno giorno e senza una ragione. È un po’ il corrispondente lisboeta di Spinaceto, se ricordate Caro Diario di Nanni Moretti, e chissà, magari qualche giovane cineasta portoghese ha pure scritto un soggetto intitolato “Fuga da Anjos”.
Tutto mi aspettavo dunque sabato scorso, mentre camminavo in Rua do Timor, nel Bairro das Colónias, in pieno Anjos, meno che d’imbattermi in un simile garage:




La freccia gialla mi invitava a fare il voyeur, niente di male pensavo io, già film come La finestra sul cortile e Blow-up magnificano lo spione. La cosa paradossale è che fino a un secondo prima mi sentivo puntati addosso i mille occhi del “branco di Anjos”, e ora mi trovavo nel ruolo opposto, quello del guardone.
E qui finisce la provocazione dell’artista visivo Julião Sarmento, perché spiando attraverso il buco questo è quello che mi appare:




Niente, un comunissimo garage. Ho saputo poi, parlando con un residente, che per questioni di quiete pubblica la polizia aveva disinstallato qualche giorno prima un grammofono collocato da Sarmento per attrarre voyeurs mediante un miscuglio di suoni elettronici (Policia 2 Blogger 0).

lunedì 11 febbraio 2008

POLICIA 1 BLOGGER 0

Venerdì 8 Febbraio, ore 19.00. “Lisboa a quem a vive, Lisboa a quem a vive!” è lo slogan urlato dagli ottanta manifestanti. Lisbona a chi la vive: una frase dipinta in una delle pareti del Gremio Lisbonense, la più antica associazione culturale della città. Cinque poliziotti bloccano l’ingresso. Centosessantasei anni di storia accatastati nei camion dell’impresa di traslochi che sta eseguendo l’ordine di sgombero emanato dal tribunale, tra casse di birra Sagres e rotoloni di carta. Sollevata come un trono, un operaio porta giù la poltrona da barbiere dove gli anziani soci, fino al giorno prima, si erano fatti rasare. E sulla tromba delle scale si uniscono le voci: “Depressão policial, terrorismo oficial!”, e poi “O Gremio è nosso, o Gremio è nosso!”, mentre un vecchio, allontanadosi dalla folla, mi appoggia una mano sulle spalle dicendo: “Força jovens, força!”.

Novembre 1998. Gli eredi dei locali che dal 1842 ospitano il Gremio Lisbonense, situato nella centralissima Praça Dom Pedro V, meglio nota come Rossio, espongono denuncia contro l’associazione per avere sostituito alcune assi del pavimento di legno della sala sud dell’immobile con un mosaico. Si apre una battaglia legale mediata dalla Câmara Municipal de Lisboa, e destinata a durare dieci anni. I proprietari, che più volte hanno ricevuto offerte d’acquisto da parte di banche e società assicurative, chiedono lo sfratto.
In base ad antiche clausole e a delibere comunali che definiscono il Gremio come un’istituzione non lucrativa di interesse collettivo, per l’affitto dell’immobile, la cui veranda apparteneva alla sede della Santa Inquisizione, i soci hanno pagato fino a dicembre 2007 una quota mensile di 400 euro.

Venerdì 8 Febbraio, ore 19.30. Dal Rossio, passando sotto l’Arco da Bandeira, arriva in Rua dos Sopateiros una camionetta della polizia, che inchioda a sirene spiegate davanti alla sede del Gremio Lisbonense. Scendono dieci agenti in tenuta antisommossa che a spallate si fanno largo tra gli ottantenni soci del circolo, che sostenendosi alle pareti o ai propri bastoni tentano di lasciare l’atrio. Calpestando i manifestanti seduti sulle scale, i policiais salgono la prima delle due rampe che portano all’ingresso. Appena la squadra arriva sul pianerottolo, un ragazzo blocca con le mani la caviglia di uno degli agenti, che tira strattoni ma non riesce a liberarsi. Un socio intuisce quello che sta per succedere e grida: “Cobrem-se a cabeça!”. Non passano due secondi che iniziano a piovere manganellate da tutte le parti. Colpito su un polso cado a terra e vengo travolto dalla folla che indietreggia. Stretto tra una parete e le gambe dei manifestanti respiro a malapena, e riesco a rialzarmi aggrappandomi ai maglioni dei ragazzi che mi stanno davanti. Ci troviamo tutti schiacciati contro un angolo del pianerottolo, e non ho lo spazio per prendere la videocamera dalla tasca del giubbotto. Poi, scalciando con gli anfibi, i poliziotti ci costringono a uscire dal palazzo scivolando sui gradini. Per strada tutti si sparpagliano agitati: chi ha avuto il tempo di proteggersi la testa si precipita nei bar intorno al Rossio per mettere del ghiaccio sul collo e sulle braccia contuse. Tutti gli altri corrono verso l’ospedale di São José a farsi ricucire le ferite sul capo, piangendo e gridando: “Fascistas, fascistas!”.

Policia 1 Blogger 0. Ho appreso che in portoghese manganello si dice cassetete, e manganellata bastonada. Anche così si imparano le lingue.
Proprio in questa settimana avrei voluto pubblicare un servizio sul Gremio Lisbonense, un luogo che era la metafora di questa città, mescolando aristocrazia e decadenza, dove i vecchi, come dicevano loro, andavano a “matar o tempo”.




Manifestanti di fronte alla sede del Gremio prima della carica




Il cassone di un camion usato per lo sgombero


All'indirizzo http://www.tvnet.pt/noticias/video_detalhes.php?id=19585 trovate il video della carica.

venerdì 8 febbraio 2008

I VOSTRI DUBBI VE LI TENETE

A Pedro crediamo, ma a te no, direte voi.
E' una storia che ho scritto quattro anni fa durante il mio Erasmus a Lisbona.
Nel frattempo i capoverdiani hanno chiuso, Pedro è passato sulla linea blu (lo sto cercando per filmarlo), ed io sono tornato a vivere nella capitale portoghese, dove lavoro per un istituto di ricerca che si chiama INESC-ID.
E proprio adesso mi è arrivato un messaggio della mia amica Mara: il Gremio Lisbonense sta per essere sgomberato. Corro a vedere.

CIECO CONTRO ZOPPO

Pedro è il cieco di Areeiro.
Col bastone e la cassetta dell'elemosina ha inventato uno strumento a percussione che batte a ritmi serrati sulle carrozze della metropolitana di Lisbona.
Dalla prima all'ultima corsa, a mendicare "moedinhas pretas", monete scure, come i portoghesi chiamavano i centesimi dello scudo, fatti in ottone, e ancora oggi chiamano i centesimi dell'euro.
Poi, all'una di notte, la metro chiude, e Pedro ritorna alla sua stazione: Areeiro, in fondo alla linea verde.

Areeiro è un quartiere brutto, lontano dalle strade del Bairro Alto, della Baixa, di Alfama e Madragoa. Hanno dei nomi bellissimi, queste strade: Rua dos Bacalhoeiros(1), Travessa da Agua de Flor, Escadinha Quebracostas(2).
A casa loro, al numero 73 di Rua do Poço dos Negros, dei capoverdiani gestiscono una locanda che apre ogni notte, alle quattro. Cucinano cachupa(3) e pollo fritto, per i neri che tornano dal porto, per i vagabondi, o per chi si trova a passare.
Io mi trovavo a passare la notte che ci vidi Pedro, il cieco di Areeiro.
Mi sedetti al suo tavolo. Pedro alzò la testa e disse: "Coxos malditos", maledetti zoppi.

Mi raccontò di un mendicante zoppo che una settimana prima, alla stazione metropolitana di Restauradores, tentò di rubargli le monete dalla cassetta, e che lui se ne accorse e lo aggredì. Tutti i mendicanti della Baixa, informati dell'episodio, si precipitarono alla stazione di Restauradores, chi per aiutare lo zoppo, chi per aiutare lui, Pedro. Ci fu una rissa.
Nel tempo, mi spiegava, gli accattoni di Lisbona si sono raggruppati in due fazioni: da una parte i ciechi, gli zingari e i parcheggiatori abusivi, dall'altra gli zoppi, i venditori indiani di fiori e le donne rumene coi bambini al collo. I piccoli suonatori di fisarmonica, invece, si sono sempre mantenuti neutrali.
"Inoltre, ad Alfama, noi ciechi pratichiamo una sorta di ricatto sentimentale. Bussiamo alla porta delle persone per chiedere soldi, e a chi si rifiuta di farci un'offerta diciamo, in lacrime, che non sanno cosa significhi non poter vedere, vivere nell'oscurità. Nessuno resiste".
E mentre il capoverdiano mi faceva il conto sulla tovaglia di carta, pensavo che era troppo facile non credere a Pedro.


(1) Via dei "lavoratori del baccalà"
(2) Scalinata Spaccaschiena
(3) Piatto capoverdiano a base di ceci, mais e uova fritte